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Sergio Della Pergola: Israele prima e dopo il 7 ottobre

November 1, 2023 by Staff Reporter

Dialogo con il professore di demografia e studi sulla popolazione presso l’Università Ebraica di Gerusalemme

Il 7/10/2023 è una data spartiacque, segna necessariamente un prima e un dopo.  Dei fatti accaduti quel giorno insieme al clima che li ha preceduti dentro la società israeliana, fino a guardare alla fine della guerra, abbiamo parlato con Sergio Della Pergola, professore di demografia e studi sulla popolazione presso l’Università Ebraica di Gerusalemme.

«Il 7 ottobre segna una cesura a livello sociale. Bisogna riportarsi al 6 ottobre, momento tragico di confusione e divisione della società israeliana, causato artificialmente seguendo percorsi politici non sani e guidati dall’attuale dirigenza politica  che, attraverso proposte e riforme esposte con evidenza dai media, avevano messo in luce le differenze che esistevano veramente in una società molto diversificata di uno stato senza una costituzione».

Perché manca la costituzione e perché ora è necessaria?
«La costituzione indica i principi fondamentali su cui si basa uno stato e vanno accettati da parte dei cittadini. In Israele alla sua fondazione non è stata scritta una costituzione, secondo me per il cuore troppo tenero dei fondatori nel considerare il diritto di ognuno a definirsi per differenza e minoranza. Ai tempi di Ben Gurion è comprensibile: il Paese era molto piccolo e ci si poteva basare su un patto tacito.  Oggi Israele è una società moderna e complessa, è enormemente cresciuto e  occorre scrivere una costituzione. Tanto è vero che siamo arrivati a una forma di anarchia, con strumentalizzazioni da entrambe le parti. E il discorso sul 7 ottobre ci porta alla Nuova Israele».

Ovvero?
«C’è bisogno di una rifondazione del Paese con una nuova premessa costituzionale. Eravamo arrivati al limite della rottura in uno stato che ha consentito a ognuno di proporre il proprio modello ideale. Israele è un luogo speciale che accoglie le pulsioni politiche di ognuno».

Forse perché è un Paese ancora giovane?
«Fermiamoci un attimo: Israele ha 75 anni. A che punto era l’Italia al compimento del suo 75esimo compleanno? Era il 1936, il Duce stava facendo l’Impero). A 75 anni nemmeno uno stato è giovane e bisogna riflettere sulla sua maturità e sulla capacità di conduzione dei suoi governanti. Qui in Israele abbiamo assistito a una sdrucciolata dopo le elezioni del 1 novembre e le manifestazioni cumulative hanno dato l’illusione, all’esterno, che Israele fosse un paese finito e da pugnalare. Ma, ebbene no: la società israeliana ha dimostrato di riprendersi in mano. La risposta all’arruolamento è stata non del 100%, ma del 150%, forse mancano solo due persone: i figli di Netanyahu che vivono all’estero (e non sono tornati). Ma il punto importante è questo: gli israeliani ci sono e sono capaci, con atti di eroismo sovrumano, a riprendere in mano il Paese».

Parliamo della guerra dal punto di vista mediatico. Cosa succede fuori da Israele e perché?
«Va vinta anche la guerra mediatica, ma Israele in questo è molto debole. Non ha una sua agenzia di comunicazione, attualmente lo fa il capo dell’esercito ma è molto lento, fortunatamente perché la sua lentezza è dovuta al fatto che si prende la briga di verificare i fatti. E se è vero che la libertà è fondamentale, ci vorrebbe una risposta ufficiale e velocissima agli accadimenti. Poi ci sono altre questioni. Primo, ci eravamo illusi che la Shoah avesse causato un processo educativo attraverso il “mai più”. Non è andata così, il mai più è fallito, la Shoah è stata metabolizzata e digerita. Secondo, esiste una mancanza di coerenza e onestà nelle forze democratiche nel non non prendere posizione contro l’Iran e il terrorismo. Bisogna dire no. Ma non farlo dimostra il fallimento del mondo occidentale che può tollerare un Paese che vuole distruggere Israele e si arma. Terza questione, l’antisemitismo. Esiste ed è diffuso, ma a parte il tradizionale zoccolo duro dei suoi sostenitori, ora vediamo una zona d’ombra composta da tutti coloro che fanno propria l’istanza del “sì, ma, però… va rispettato un principio di simmetria”. A mio avviso, la simmetria in questa guerra non può esistere, Israele non può essere proporzionale. Dopo la guerra occorrerà ricostruire, con altre regole e soprattutto un’altra leadership. Ma ora Israele deve eliminare la possibilità di un secondo attacco».

Perché Israele ha preferito lasciare che Hamas si armasse piuttosto che trattare con l’ANP?
«Netanyahu ha guidato il Paese dal 2009 quasi continuativamente e ha fatto delle scelte politiche. Ma la lotta al terrorismo e la politica devono andare insieme. Lo aveva detto chiaramente Rabin: non si può fare solo una delle due azioni»·

Qual è la percezione della sicurezza ora in Israele?
«Dipende dai luoghi. Nelle città si cerca di tornare a vivere, ma il problema riguarda gli abitanti delle zone di confine: sono profughi in patria! 120mila sfollati, un caso senza precedenti. Dunque ci vorrà un piano per la ricostruzione e Gaza va data in mano a una forza araba moderata che possa creare infrastrutture adeguate per rendere possibile la vita dei suoi cittadini».

Cosa pensa dell’estensione del conflitto a livello regionale o addirittura mondiale?
«Il rischio c’è e nel caso dovete partecipare: non si può stare a guardare, va giocata la partita. Se i conflitti si estendono in teoria tutto il mondo è coinvolto. Attualmente, occorre ristabilire il deterrente israeliano. Dopo, ci sarà una commissione di inchiesta e soprattutto ci saranno le elezioni. Al momento i sondaggi registrano la disfatta del Likud e la vittoria dei centristi».

 



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